IL RECUPERO DEI RESIDUATI BELLICI 

                1a PARTE

La parola "RECUPERO" non era nuova al vocabolario italiano, alla tradizione contadina e in campo militare, ma mai come in corso e post 2° conflitto  assunse un valore così importante. Nella Grande Guerra (15-18) un vero e proprio recupero iniziò ad armi fumanti, prima ancora che fossero predisposti i grandi cimiteri/ossari di guerra. Il lavoro di recupero si estese ben presto anche ai resti dei soldati caduti e alle ossa di animali.  In tali termini il pietoso lavoro si incrociava con i mille piccoli imbrogli che avrebbero potuto escogitare coloro che su quel mercato di morte ricostruivano la propria vita. Nacque una classe lavoratrice detta dei "recuperanti" che pose mano anche al ferro inerte che giaceva sopra e sotto la terra, inerte e non quando erano bombe inesplose. Olmi dedicava poi un film a queste persone  http://it.movies.yahoo.com/i/i-recuperanti/index-351326.html coi "Recuperanti". La ricerca e la raccolta dei residuati bellici produssero un po' alla volta specifiche competenze, personali e di paese: i maschi adulti si dedicavano al “picàr”, cioè a scavare per trovare le trincee, i depositi e i proiettili di grosso calibro (Bombe) che generalmente venivano disinnescati e tagliati sul posto se integri; bambini/e e ragazzi/e, dagli 8 ai 14 anni, andavano "alla spigola", in cerca delle schegge e dei piccoli calibri; le donne, infine, dovevano provvedere a portare in quota giornalmente il cibo e riportare a valle il carico del ritrovato. In alta montagna il recupero continuerà negli anni favorito dalla regressione dei ghiacciai. Mi raccontava qualche anno fa un albergatore d'Asiago che mentre da giovane stava al pascolo continuava a raccogliere le cose più piccole che erano sfuggite e che la natura ora stava ricoprendo e inglobando. Un grosso rischio personale, sempre per bocca di valligiani, era il taglio di assi da alberi in cui si erano insinuate schegge. Si recuperò anche quanto l'esercito austriaco aveva abbandonato o fu costretto a consegnare in conto debiti di guerra. Ma tutto questo non fu che la centesima parte di quanto avvenne durante e dopo il II conflitto. La differenza stava tutta nella tecnologia e nella meccanizzazione ora giunta a livelli inimmaginabili. Non comprenderò in questi tre capitoli i recuperi navali (per intenderci quelli da palombari) di cui darò peraltro un breve cenno di seguito.

Viareggini per la maggior parte, i palombari si erano formati prima all’imbarco come mozzi (12 anni d’età) poi alla scuola del Varignano ( http://www.hdsitalia.com/articoli/26_scuola.pdf  ) dove di leva prendevi qualche soldo in più con le immersioni. Il fattore stipendio era determinante, in un periodo di povertà diffusa. Eroi quindi per necessità incaricati di rimuovere vecchi relitti dalle imboccature dei porti o recuperare preziosi carichi ingoiati dal mare, facendosi largo fra le macerie a suon di cariche esplosive: così fu anche per i quelli dellArtiglio, nave ammiraglia della So.Ri.Ma. (Società Ricuperi Marittimi, costituita a Genova nel 1926). Il recupero civile, come detto, spaziava dall’archeologico (navi Romane) al venale (lingotti d’oro) per finire al militare. Il loro primo leggendario recupero fu l’Egypt, transatlantico inglese di 8.000 tonnellate, affondato nel maggio del 1922 al largo delle coste bretoni (Brest) per collisione. Nella stiva quasi 8 tonn. d’oro e 40 d’argento a 130 metri di profondità. Il relitto viene localizzato il 29 agosto del 1930 dopo due anni di ricerche finanziate dai Lloyd’s, gli assicuratori disperati dell’indennizzo. L’inverno arriva presto e a quella latitudine in mare aperto non si può lavorare. Dopo le prime casse si ferma tutto. In attesa del bel tempo si lavora sotto costa per rimuovere il “Florence H.” dalla baia di Quiberon, un relitto della Prima Guerra Mondiale carico di esplosivo (150 tonnellate di munizioni) che ostruiva il passaggio sulla rotta di Saint-Nazaire. Non andò come previsto: il 7 dicembre il carico saltò in aria e con esso l’Artiglio (che giace su un fondale di 30 m), ma non la nave appoggio Rostro che recuperò 7 superstiti. Nel 1931 un secondo battello, l’Artiglio II, parte con altri palombari per proseguire l’impresa del recupero dell’Egypt che viene portata a termine con successo l’anno dopo. Era il 22 giugno quando i primi lingotti d’oro approdarono sul ponte dell’Artiglio II. E l’opera continuò quando nel secondo dopoguerra ci fu da liberare i porti e recuperare quanto più metallo possibile e rendere sicura la navigazione.

Il grande capitolo dei recuperi terrestri (salvo la parentesi Dunkerque) era iniziato nella primavera del ’41 in Africa settentrionale quando ci si accorse che i capovolgimenti continui di fronte e le perdite in mare di scorte creavano un deficit di mezzi colmabile solo coi recuperi da entrambe le parti. Rommel, più degli inglesi (Repair and Salvage Unit R.E.M.E.), aveva a propria disposizione squadre d'officine campali che oltre a togliere dal campo i propri mezzi recuperabili, toglievano anche quelli del nemico e li rimettevano in strada. Dopo un po’ di tempo non si capiva più chi era il nemico e l'amico, tanto che si dovevano stendere delle bandiere sul cielo dei mezzi. Rommel stesso viaggiava su un mezzo inglese catturato a rischio di mitragliamenti aerei dei suoi, poiché non stendeva segni nazionali. Si disse che si accodasse alla colonne inglesi in ritirata e sostasse nottetempo al margine dei falò nel deserto senza essere scoperto. Quanto venne fatto in Africa, sul momento, non ebbe uguali in Europa sia per l’ambiente che per le occasioni che erano cambiate. L’entrata in guerra degli Usa aveva di colpo reso antiquato anche il materiale tedesco. Quello inglese lo era già da molto. Per i russi fu lo stesso. Viaggiavano su mezzi americani, ad esclusione del carro armato T34. Naturalmente il recupero continuò anche per singoli pezzi per scoprirne i segreti o replicarne i vantaggi, come fecero gli italiani in diverse occasioni (Daimler Dingo clonata con la nostra Lince e il Crusader col carro sahariano che non vide mai la luce). Il bottino di Dunkerque poi di Dieppe venne equamente diviso fra gli alleati dell’asse e questo la dice lunga sulla scarsa produzione che caratterizzò sempre il Reich e l'Italia. Coi residuati francesi gli italiani armarono un reggimento corazzato che non entrò mai in linea, era pericoloso a se stesso. Con la campagna d’Italia si cominciò intanto a liberare le strade di quello che cadeva da entrambe le parti schierate, ma più per sicurezza che per effettivo bisogno. Bisogna arrivare all'aprile del '45 per assistere al grande assalto quando a pistole fumanti fu chiaro che una grande prospettiva di sviluppo si sarebbe aperta in un paese che aveva conferito oltre all’oro, i tegami di rame e le cancellate. Di automezzi circolanti, dei pochi che avevamo non c’era rimasto praticamente nulla e lo stesso dicasi per i trasporti ferroviari.

LE NAVI LIBERTY
costruite (assemblate) nel giro di 5 giorni

http://www.ncmuseumofhistory.org/workshops/WWII/LibertyShips.htm
 

Each cargo ship measured 441 feet long and 56 feet wide. Two oil-burning boilers fed a three-cylinder, reciprocating steam engine, propelling the ship at a speed of up to eleven knots. The vessels could carry more than 9,000 tons of cargo in addition to transport airplanes, tanks, and locomotives lashed to their decks. They could carry 2,840 jeeps, 440 tanks, or 230 million rounds of rifle ammunition. Newspapers dubbed the ships “ugly ducklings,” and President Franklin D. Roosevelt called them “dreadful-looking objects.” Attempting to present a more positive image, the U.S. Maritime Commission referred to the ships as the Liberty Fleet and proclaimed September 27, 1941, the day the first fifteen ships were launched, Liberty Fleet Day.

L’esigenza di avere vascelli adibiti al solo uso militare (Standard) era già una esigenza sentita prima della guerra che a tutti gli effetti veniva profetizzata. La prima commessa di 50 navi venne raddoppiata e di nuovo raddoppiata nel 1940. Con lo scoppio del conflitto e la guerra sottomarina l’Inghilterra aveva chiesto urgentemente un certo numero di navi e l’unico posto dove potevano essere costruite era il Nord America. Abbiamo detto standard perché molte delle navi avevano delle caratteristiche specifiche per il carico che trasportavano: carri armati, Aerei con le ali smontate, petroliere, costiere etc…. Non sto a descriverne i vari allestimenti e motori che troverete nel link http://en.wikipedia.org/wiki/Liberty_ship  http://it.wikipedia.org/wiki/Liberty_%28navi_trasporto%29 . Le navi cominciarono ad entrare in servizio a partire dal 1942, e la loro massa fu tale da rendere alla lunga perdente la campagna degli U-boot. Le Liberty erano navi capaci, e realizzate in maniera tale che esse raggiungevano economicamente il loro scopo, semplicemente riuscendo a eseguire un solo trasporto a pieno carico. La costruzione economica di queste navi andava incontro una volta in mare a diversi inconvenienti. Una nave ogni 8 ebbe dei problemi con le saldature, una ogni 30 li ebbe di grave entità, ma successe addirittura che non meno di 5 affondarono spezzandosi in 2, specie nei climi freddi, quando l'acciaio si induriva e si fessurava con facilità. Parliamo di problemi nelle peggiori condizioni di carico e meteo. Vennero creati ex novo numerosi cantieri navali (sparsi lungo le coste) ed adottata la tecnica della prefabbricazione ed assemblaggio sfruttando la pratica della catena di montaggio, ma sopratutto la sostituzione della " saldatura" (era ancora sperimentale) a quella della "chiodatura". Il 27 Settembre 1941 uscì la prima nave battezzata "PatricK Henry". Per questa nave occorsero 350 giorni di lavoro. Dopo 2 mesi (Pearl Harbour) l’esperimento era diventato una stringente necessità. L’ultima costruita esce nell’ottobre del 1945. Ne vennero così costruite 2.710 !!!, numero enorme che aggiunte ai tipi anglo-canadesi portano il totale alla ragguardevole cifra di ben 3.063 unità. !!!!. Costruite come detto con l'intento di un uso breve ne affondarono 301 per cause diverse belliche. A fine guerra un certo stock rimase nelle rade degli Usa in attesa di una possibile ripresa della guerra. Le altre considerate obsolete o difettose prendevano la via del cannello ossiacetilenico. Negate in un primo tempo all’Italia (si privilegiavano i veri vincitori) alla fine anche noi, oltre a quelle da demolire, ne avemmo 162 da reimmatricolare nell’ambito del piano Marshall per la ripresa produttiva. Le merci ricominciavano a circolare e se non il mare come migliore strada. Parcheggiate nelle foci dei grandi fiumi americani, venivano mantenute efficienti in vista della guerra fredda.

Da http://www.scmncamogli.org/pagine/nliber_nar.htm   

…Al tramonto il SESTRIERE finalmente salpò da Genova e fece rotta per Baltimora-Stati Uniti. Il nostro gruppo, appartenente all'armatore Achille Lauro, fu sistemato nei corridoi della stiva n°4, a poppavia del cassero, in letti a castello da tre posti. Alcuni tavolacci per il consumo dei pasti erano stati approntati nei corridoi stessi, mentre per i servizi igienici ci dovemmo accontentare d'alcune tughe di legno costruite in coperta e fornite d'acqua di lavaggio in circolazione permanente, con scarico diretto in mare. La fortuna ci diede una grossa mano. Considerando la stagione in corso, il tempo fu eccellente ed il viaggio durò soltanto 14 giorni.
- Portare a casa un lotto di 50 navi non era uno scherzo ci volevano 50 equipaggi e 50 comandanti. Emigranti occasionali si adattarono a un trasporto, il “Sestriere” per quel tempo inadatto e modesto in cambio di lavoro futuro.
Al primo impatto con quella baia ricoperta di centinaia di Liberty ancorate ed affiancate a rovescio, (prora con poppa), ci venne naturale riflettere su quell'immensa produzione bellica ed alla presunzione di chi ci aveva governato per vent'anni e che non aveva minimamente stimato il patrimonio umano, la ricchezza, le capacità tecniche ed organizzative, di quella potenza economica che erano gli Usa di quel tempo. E ci fu subito un'altra sorpresa: ci aspettavamo, dato il basso costo d'acquisto della nave, d'imbarcare s'un residuato bellico quasi da demolire. Al contrario ci trovammo su una Liberty perfettamente funzionante, in ottimo stato di conservazione, perché era visibile, in ogni suo angolo, l'opera di una manutenzione accurata ed eseguita ogni giorno durante la sosta alla fonda. La nave era provvista di frigoriferi, ampie salette, cabine singole per gli ufficiali e doppie per la bassa forza. La strumentazione nautica: girobussola, radiogoniometro, eco-scandaglio, costituiva una novità assoluta per quell'epoca, ma quest'improvviso salto tecnologico era completato anche da una imponente bibliografia, efficiente, pratica ed innovativa come ad esempio le Tav. HO-214 che consentivano un rapido e preciso calcolo astronomico della posizione della nave.

L’immagine di cui sopra è stata creata in territorio italiano ed è ora di pubblico dominio poiché il suo copyright è scaduto. Secondo la Legge 22 aprile 1941 n. 633, modificata dalla legge 22 maggio 2004, n. 128 articolo 87 e articolo 92, le foto generiche e prive di carattere artistico divengono di pubblico dominio a partire dall'inizio dell'anno solare seguente al compimento del ventesimo anno dalla data di pubblicazione. Nota: le fotografie considerate opere d'arte diventano di pubblico dominio dopo 70 anni dalla morte dell'autore.

A.R.A.R.
L'
Azienda Rilievo Alienazione Residuati è l'ente cui il Governo di Unità Nazionale affidò il compito di vendere i beni ed i materiali bellici confiscati al nemico o abbandonati dall'esercito alleato al fine di rendere più agevole il ritorno in patria. Costituita sotto il governo Parri nell’ottobre del 1945 venne presieduta per oltre 13 anni dall’economista Ernesto Rossi. La sede ufficiale era a Caserta e molti depositi erano in Campania alimentati dalla lunga lotta alle falde di Montecassino. Il dinamismo e l'integrità morale di Rossi, consentirono all'A.R.A.R. di diventare uno dei primi "motori" della società italiana del dopoguerra, rappresentando una continua e concreta fonte di entrata per l'erario e, altresì, permettendo la distribuzione in tempi rapidi delle attrezzature utilizzabili e la trasformazione in materia prima dei materiali nobili di risulta. Migliaia di automezzi militari vennero convertiti all'uso civile o  si creò, come nel caso della Lambretta, dalle demolizioni navali (carenature sottili) un nuovo mito italiano.

A fianco l'autodromo di Monza trasformato in deposito dell'ARAR nel 1946. Di tale situazione anomala risentirono, oltre al manto stradale, anche i box, i vari fabbricati, le tribune. Il ripristino integrale dell'autodromo venne deciso dall'Automobile Club Milano all'inizio del '48.

La prima grossa disgrazia a Canove avvenne nel 1920…Da allora non si contarono più le disgrazie che provocarono mutilazioni e morti. Da questi tristi fatti il recuperare residuati andò scemando fino al 1930 quando, forse per la grande crisi del 1929, c'era necessità di reperire materie prime. Il rialzo dei prezzi e la difficoltà di trovare occupazione, riproposero il mestiere del recuperante che, attraverso le disgrazie, si andava affinando e divenne un lavoro. Il recuperante partiva da casa armato di piccone e vagava per prati e pascoli, per boschi e valli;ogni tanto sostava, guardava il terreno e, scelto il luogo, incominciava a scavare, osservava il terriccio, annusava la punta del piccone e decideva se continuare a scavare oppure no. Ma se continuava il lavoro di scavo, certamente uscivano dal terreno bombe intere o in frammenti… I recuperanti lavoravano quasi sempre isolati, raramente in coppia: solo se rinvenivano qualche zona molto ricca di materiale si associavano. Erano gelosi del proprio bottino giornaliero. Parlavano con rara competenza di granate italiane, tedesche , francesi ed inglesi con tutti i loro calibri e funzioni: schrappnel a sferette di piombo (mml.10) o di ghisa, dirompenti, perforanti, incendiarie , a gas e le maledette a Yprite. Un buon guadagno era frutto delle corone di rame di forzamento delle bombe da cui, venivano divelte a scalpello e martello. Un grosso problema era dato dalle bombe inesplose che non si potevano vendere. Allora escogitando una tecnica particolare per cui, con una carica di esplosivo sistemata sulla bomba in quantità e posizione adeguate, riuscivano a spaccare la bomba senza farla esplodere (in gergo “brillare”. Necessariamente questo lavoro lo facevano in grotte , caverne e ruderi, perchè c'era sempre il pericolo che qualche bomba brillasse provocando il danno di un colpo di cannone di quel calibro ed anche più perchè è notorio che l'esplosivo invecchiando diventa “irrequieto”e scoppia con facilità e con maggior potenza. Nel 1935-1936 a causa delle sanzioni per la guerra di Etiopia, la ricerca di residuati di guerra si intensificò ulteriormente, i recuperanti demolirono dei fortilizi per recuperare anche le putrelle ed il ferro da cemento armato.In quegli anni a Canove successe un fatto significativo:un squadra di recuperanti del paese volle recuperare le monumentali corazze del Forte Verena, divelte dai bombardamenti austriaci e precipitate nei sottostanti roccioni, non per venderle, ma per sistemarle nella piazza del paese a lato del monumento ai caduti . Quando le bellissime corazze erano giunte in piazza a Canove, per la faccenda “Oro alla Patria “, vennero degli specialistiche con la fiamma ossidrica, le ridussero in pani maneggevoli e se le portarono via. Dopo la guerra (40-45) dai campi ARAR saltarono fuori i ricercatori magnetici o cercamine americani ed i recuperanti muniti di questa novità ripresero il lavoro con più lena. Con questi rilevatori, impropriamente battezzati RADAR, si perlustrava il terreno e quando l'apparecchio passava sopra a metallo sepolto emetteva un suono in cuffia, ma faceva scavare anche per una scatoletta vuota. Allora i recuperanti impararono a riconoscere la qualità del fischio per individuare la presenza dei vari metalli e la loro consistenza. Non tutte le bombe potevano essere rotte con l'esplosivo ed allora qualche sconsiderato, pazzo o coraggioso, tentava il disinnesco tecnico che consisteva nello svitare la spoletta od il culatte contenente il detonatore, operazione resa difficile dalla ruggine. A volte andava bene e si recuperava la bomba intera con l'esplosivo interno, ma a volte l'uomo volava in cielo con la nuvola dello scoppio. Ultimo atto del recupero: fino al 1950 -1960 e oltre, tutti boscaioli, i cavatori di marmo, i contadini e tutta la popolazione ha goduto di attrezzi di lavoro come segoni a mano, badili, picconi, accette, mazzuoli,stampi da mina, carriaggi e filo spinato per delimitare le proprietà, elementi componibili di baracche canadesi, paletti di ogni genere a T a L a coda di porco, provenienti dal recupero. Impensabile la quantità di paletti, di canne di fucile e di mitragliatrice finita per armare il calcestruzzo per architravi di porte e finestre. E quanti fucili furono “trapanati” cioè maggiorati di calibro, per renderli fucili da caccia cal. 32 e cal. 28, specialmente il “Manlicher” austriaco.
 

Museo della guerra di Canove associazione alpini
http://www.anacanove.it/museoguerra/UserFiles/File/alpini2_0.pdf?PHPSESSID=147746754528dff8bc695eb48cfd118d 

nella seconda parte dagli "Sherman" alle littorine della "Freccia del Garda"

ERNESTO ROSSI (Caserta, 25 agosto 1897 – Roma, 9 febbraio 1967)


Nato nel 1897, si arruola volontario nella prima guerra mondiale e viene ferito gravemente nel marzo 1916. Nella primavera 1919 intraprese la collaborazione giornalistica al quotidiano «Il Popolo d’Italia», sul quale pubblicò sino al 1922 articoli di carattere economico, prospettando soluzioni liberiste. Contestualmente lavorò come segretario presso la sezione fiorentina dell’Associazione agraria toscana. Dal 1923 è docente di materie economiche all’Istituto tecnico di Firenze. Si era intanto avvicinato al gruppo di antifascisti che comprendeva Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Piero Gobetti, Riccardo Bauer e insieme a loro pubblicava le riviste clandestine “Giustizia e Libertà” e “Non mollare” che attrassero ben presto l’attenzione della polizia e degli squadristi. Sfugge alla cattura e passa clandestinamente in Francia da cui rimpatria solo per il concorso della cattedra in discipline giuridico-economiche dove risultò primo classificato. All’Istituto tecnico industriale “Vittorio Emanuele III” di Bergamo divenne amico di una collega, Ada Rossi, insegnante di matematica, lei pure di sentimenti antifascisti, con la quale si fidanzò nel 1929 (e si sposò nel 1931). L’attività clandestina, divenuta particolarmente intensa nel 1930, fu stroncata dal tradimento dell’avvocato Carlo Del Re, che denunciò alla polizia i cospiratori, in cambio di una cospicua somma con la quale coprì un ammanco finanziario da lui determinato in veste di curatore fallimentare del tribunale. Ernesto Rossi fu condannato a venti anni di carcere dal “Tribunale speciale” nel corso del “processo agli intellettuali” antifascisti. Rimase in carcere a Regina Coeli a Roma fino al 1939 quando fu assegnato al confino di polizia nell’isola di Ventotene. In carcere continuò gli studi di economia, e al confino, insieme ad Altiero Spinelli, redasse quel “manifesto di Ventotene” che gettava le basi della struttura federalista europea. Rimesso in Libertà fu riarrestato il 9 luglio 1943 e scarcerato con la caduta di Mussolini. L’8 settembre capeggiò una manifestazione popolare a Bergamo, il che lo segnalò all’attenzione dei neofascisti e dei tedeschi; ricercato, cercò contatti a Milano, senza risultato; in pessime condizioni di salute, il 28 settembre varcò la frontiera elvetica, stabilendosi dapprima a Lugano e quindi a Ginevra. Il 19 aprile 1945 rientrò e ricoprì cariche di sottosegretario alla ricostruzione. Membro del Partito d’Azione, Ernesto Rossi fu scelto nel 1945 come presidente dell’Arar perché occorreva una persona che desse assolute garanzie di indipendenza e di onestà. Troppi appetiti, infatti, destavano quei milioni di tonnellate di residuati bellici che si trovavano in 152 campi sparsi per l’Italia, in gran parte intorno a Napoli e Bari, ma anche a Livorno, in Lombardia, nel Veneto, in Romagna a Gambettola etc….. Materiali preziosi che andavano dalla gomma, ai metalli (acciaio, nichelio, rame, stagno) ma anche preziosi veri e propri oggetto della spoliazione tedesca verso gli Ebrei e rintracciati in Alto Adige dov’era pure finito il tesoro della Banca d’Italia, 119.251,9 kg d'oro, in 626 cassette di lingotti e 543 sacche di monete e mai recuperato per intero. Sui beni di ebrei e di sinagoghe si innescò nel dopoguerra una polemica in parte mai risolta http://www.governo.it/Presidenza/DICA/beni_ebraici/PAG523_534.pdf Secondo le disposizioni di Rossi i beni riconosciuti (e documentati) prima della vendita venivano restituiti previo pagamento di diritti di custodia. Se il bene era già venduto al prezzo di vendita veniva tolta la commissione di vendita e i diritti di custodia. Il piano recuperi si inseriva anche in un complesso movimento di compensazioni monetarie che andavano in un senso nel riscatto delle AM lire e dall’altro dai piani finanziari dell’Unrra e Erp o Piani Marshall. L’efficienza e la correttezza della gestione dell’Arar indussero il governo ad affidare a questo ente anche l’amministrazione dei materiali forniti all’Italia nell’ambito degli aiuti delle Nazioni unite. Poiché Rossi si faceva pagare quello che vendeva (e non era sparito prima: ricordiamo che i primi raccoglitori autorizzati furono i CLN locali) si disse anche che aveva procurato allo stato una non indifferente entrata fiscale.
La sua azione politica continuò con la fondazione, nel 1955, del Partito radicale. Nel 1957 Rossi assunse la direzione della collana “Stato e Chiesa” dell’editore fiorentino Parenti, curando l’uscita di una quindicina di titoli su aspetti particolari dell’ingerenza ecclesiastica nella vita italiana dal Risorgimento al secondo dopoguerra. Tra questi volumi si segnalano Risorgimento scomunicato di Vittorio Gorresio, Lo Stato catechista di Alberto Aquarone, I preti in cattedra di Luigi Rodelli, Il processo al vescovo di Prato di Leopoldo Piccardi, Battezzati non credenti di Aldo Capitini. Nel 1962 la polemica sul “caso Piccardi” (relativo alla partecipazione di Leopoldo Piccardi, nel 1938, a due convegni di studi giuridici italo-tedeschi sul tema della razza) determinò la cessazione della collaborazione a “Il Mondo” e la sua uscita dal Partito radicale. Insieme a Ferruccio Parri preparò allora il progetto di un nuovo settimanale: “L’Astrolabio”, edito nel marzo 1963. Una grave malattia lo porterà però nel giro di 3 anni alla morte.

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Per saperne di più 

http://www.calypsosub.it/storia/la-decima-mas.html?Itemid=108  http://www.nauticoartiglio.lu.it/palombari/WITN_sodini.htm